“Non pensare male, se tu, se io, se noi, non siamo niente di speciale”. Cantano così, gli Elephant Brain in Niente di speciale, canzone che da il titolo anche al loro primo album. «Speriamo che non sia una previsione del nuovo decennio» aveva scritto la band perugina sulle sue pagine social in occasione dell’uscita del disco, pubblicato all’inizio del 2020 e distribuito da Libellula-Believe. Di sicuro, gli Elephant Brain non immaginavano che di lì a breve si sarebbero trovati nel pieno di una pandemia globale che avrebbe reso difficile, ma non troppo, anche la promozione del loro album. Un disco che, brano dopo brano, ripercorre la loro idea di fare musica, ma anche vicende personali vissute nella vita quotidiana. Oggi la band, nata nel 2015 e costituita da Vincenzo Garofalo (voce e chitarra), Andrea Mancini (chitarra), Emilio Balducci (chitarra), Roberto Duca (basso) e Giacomo Ricci (batteria), conosciutisi tra i banchi di scuola, è tornata a suonare sui palchi dopo il lungo lockdown. Tra un evento e l’altro, i ragazzi ci hanno raccontato della loro musica e dei loro progetti futuri.
Partiamo dal vostro album “Niente di speciale”. Come è nato?
«Niente di speciale è un disco radicato nella realtà quotidiana e che cerca di condividere quello che è stato per noi scrivere nel concreto questi pezzi, in un momento della nostra vita molto complicato. Un disco nato e scritto in quasi 4 anni, da dopo l’ultima data dell’EP (Elephant Brain) uscito nel 2016».
Se doveste dare a chi ascolta i brani del vostro album una chiave di lettura complessiva delle tracce in esso contenute quale sarebbe?
«Tutte le canzoni del disco ruotano intorno a quello che abbiamo vissuto in questi tre anni per scriverlo, a quello che tutt’ora viviamo e a tutto quello a cui rinunciamo per riuscire a dedicare del tempo alla scrittura, alla musica. L’idea del disco è affrontare quello che ruota intorno alla creazione dello stesso. Si parla tanto di come si dovrebbe scrivere un pezzo, di quanto dovrebbe durare per catturare l’attenzione del pubblico, di come dovrebbe parlare di cose interessanti, scritte in modo accattivante. Non si parla mai, invece, di quanto fare musica, in realtà, a volte sia proprio una merda rara – perdonateci il termine – che ti toglie il sonno. Come abbiamo detto, “Niente di Speciale” è un disco radicato nella realtà quotidiana, ma è anche prendere consapevolezza che le problematiche affrontate, per quanto possano far incazzare, in fondo non sono, appunto, niente di speciale: che crescere è così, ma ci si può sempre rifugiare nelle cose a cui teniamo, come ascoltare un disco per allentare la tensione, farsi una birra, condividerla con le persone a cui vogliamo bene».
Mi ha colpito la copertina del vostro album. Come mai la scelta di una figura di un uomo sotto la doccia in mezzo al nulla?
«La copertina rappresenta un’attività quotidiana che assume un carattere straordinario perché inserita in un contesto particolare. È un immagine simbolica per indicare che le vite quotidiane di tutti noi sono, in molti casi, niente di speciale, ma per il fatto che ogni persona le vivrà in maniera diversa, con le proprie emozioni e sensazioni, assumono dei significati soggettivi che saranno necessariamente diversi da quelli degli altri, anche a parità di azione. Come farsi una doccia, appunto: tra farla in mezzo al ghiaccio e farla nel comfort del proprio bagno di casa c’è una certa differenza, insomma, anche oggettiva, ma a variare sarà sicuramente anche ciò che prova e, quindi, vive il soggetto. È una sorta di celebrazione del quotidiano come regno della straordinarietà soggettiva».
La canzone “Ci ucciderà”, contenuta nel vostro album, rappresenta quindi un po’ la vostra idea di fare musica?
«In qualche modo, sì. Fare musica è bellissimo e tutti noi siamo felicissimi di farlo, ma questo non significa che non sia complicato. È complicato, in primis, perché chiaramente richiede un quantitativo di tempo molto ampio che non sempre si sposa bene con le vite che avanzano e, quindi, necessariamente ti troverai sempre a dover centellinare i minuti. Inoltre, comunque stai lavorando con altre persone che non la pensano necessariamente come te e questo porta anche a qualche nervosismo interno inevitabile. É anche complicato,però, perché ti stai guardando dentro per buttare fuori quello che vedi e questa introspezione non sempre è traducibile in musica, quindi, a volte, ciò può portare ad una carenza di ispirazione. Così stai lì, a cercare le note e le parole giuste, senza successo, qualche volta anche per mesi. È frustrante, insomma. Però non è negativo: quando alla fine riesci a esprimere tutto ciò che volevi esprimere, è una sensazione bellissima e non vedi l’ora di rifarlo da capo».
Per la pubblicazione del vostro album avete collaborato con Iacopo Gigliotti dei Fast Animals and Slow Kids. Come è iniziata questa collaborazione e come è stato lavorare con lui?
«Sappiamo che l’unica persona che potrebbe sopportarci con una pazienza così incredibile è solo il mitico Jac! A parte gli scherzi, è stato come un fratello, fin dal primo giorno in cui è venuto nella nostra sala prove e ha ascoltato tutti i nostri provini. Da quel momento abbiamo instaurato un bellissimo rapporto. É un professionista e grazie alla sua esperienza è riuscito a convertire tutti i suoni distorti, i ronzii e fischi vari in un disco, proprio come ce lo eravamo sempre immaginati. Per il momento a noi piace vivere questa dimensione “home made”, registrare nella nostra sala prove con i nostri tempi e con suoni a volte non perfetti che, però, rispecchiano la vera natura dei pezzi, e che, in realtà, è anche la nostra natura».
Il vostro album è uscito da un anno e mezzo. Se doveste tirare le somme a tal proposito, direste che vi ritenete soddisfatti dei risultati avuti fin’ora?
«Super soddisfatti! Per quanto il disco, dopo due mesi dall’uscita, si sia ritrovato immerso in un caos come pandemia e lockdown, la gente ci ha supportato e ha creduto tantissimo nel nostro progetto. Per noi è stato davvero importante. Non smetteremo mai di ripeterlo! Se ad oggi possiamo permetterci tutto questo, è solo grazie alle tante persone che ci hanno supportato, a volte, anche senza neanche conoscerci. Abbiamo fatto partire pre-order di vinili con zero euro e siamo riusciti a stamparne il doppio del previsto. Questa cosa ci emoziona tutt’ora e non poco! Abbiamo raccolto tante piccole soddisfazioni (interviste su Rai Radio2, da Red Ronnie, inseriti nella Playlist Rock Italia di Spotify). Ci sembra ancora tutto assurdo!»
Come definireste il vostro genere musicale? Quali sono le vostre principali influenze musicali?
«Direi rock, molto generico. Dai! Nel 2021 i generi ormai chi li va più a vedere?
Riguardo le influenze, anche attualmente, il midwest americano è una costante: Sorority Noise, American Football, Origami Angel, Tiny Moving Parts, Modern Baseball, PUP, The Hotelier, etc…Per noi sono un faro, ma in generale chi vuole fare musica deve ascoltarne il più possibile: può esserci una scena musicale che magari abbiamo nel cuore, ma poi, oggigiorno, ci sono band incredibili in ogni angolo del globo (Gang of Youths o Nick Cave in Australia, solo per fare un esempio) che vanno necessariamente conosciute e ascoltate. Pure il punk rock nostrano ci piace, ma anche band molto più grandi. Scrivere Niente di speciale è stato molto stimolante anche per questo, perché ognuno di noi si è aperto a 360 gradi alle influenze degli altri scoprendo universi che nemmeno si immaginava o che mai avrebbe ascoltato. Ogni volta che iniziamo un nuovo album facciamo sempre una playlist dove dentro mettiamo tutti gli ascolti o le canzoni che ci influenzano in quel momento.
Elephant Brain, un nome piuttosto singolare per la vostra band. Motivo della scelta?
«Dovremmo essere preparati ormai a questa domanda, eppure ci spiazza sempre. Potremmo dare almeno una ventina di risposte diverse e quasi tutte sarebbero non lontane dalla realtà. In verità, Elephant Brain rappresenta un po’ quello che vogliamo comunicare con la nostra musica: lo spessore sonoro e la potenza (un suono “grosso”, pieno di chitarre e una batteria che pesta duro), suonata e interpretata con senso profondo, sensibilità emotiva e coinvolgimento emozionale. Allora la domanda che ti farai ora è: si ma perché in inglese? Fondamentalmente perché ci piaceva e suonava bene».
Stiamo uscendo da una fase piuttosto difficile. Come avete vissuto voi il lockdown? Avete trovato, in questo lungo periodo di chiusura, ispirazione per altri futuri brani?
«Siamo una band che ha sempre lavorato “in presenza” – per riprendere uno dei termini più abusati dell’ultimo periodo – e questa distanza forzata dalla sala prove, forse, ci ha aperto ad altri spiragli e modi di comporre. Abbiamo lavorato con una cartella Google Drive condivisa dove dentro c’erano tutti i provini e i testi, ognuno entrava quando voleva, poteva semplicemente ascoltare, oppure registrare, scrivere insulti, parti di testo, insomma lavorava ai brani in maniera autonoma. Poi, ogni tanto, si faceva una riunione su Streamyard per fare il punto della situazione o per rivendicare la propria idea di riff o linea melodica cancellata da quello che entrava dopo (santi backup!!). In pratica un lavoro totalmente diverso dal solito, ma che comunque ha aperto a nuove possibilità».
Prossimi progetti in cantiere per la vostra band?
«Stiamo registrando nuovi brani che usciranno sotto forma di un disco o chissà cosa a breve. La cosa importante per noi è che siamo molto soddisfatti del risultato finale, nonostante la pandemia e l’impossibilità di vederci di persona e scornarci in sala prove.Suoneremo anche un po’ in giro questa estate. Trovate tutte le date (alcune in aggiornamento) sui nostri canali social».
Facebook, Instagram, Spotify, Playlist ascoltata durante la lavorazione di Niente di Speciale, Playlist ascoltata per la lavorazione del nuovo album